Sta prendendo corpo l’potesi di uno sciopero degli immigrati. Mi sembra una iniziativa da sostenere, tanto per far capire a chi concepisce l’immigrazione unicamente come un problema di ordine pubblico che il fenomeno è, ovviamente, molto più complesso e non può essere usato a mò di clava per fini propagandistici-elettorali.
Soprattutto da quelli con la camicia verde. Ma dubito che ci sentiranno, da quell’orecchio.
«L’amore che detta ogni legge», canta l’ultimo Lorenzo. Già. L’anno dell’amore e delle riforme, come no? Abbiamo, però, presto scoperto che l’amore “di governo” non è universale. La maggioranza è stata chiara: nessuna decisione a proposito della legge sulla cittadinanza prima delle Regionali. Come già per il nucleare, è il caso di rinviare: stranieri e impianti radioattivi possono nuocere alla campagna elettorale della destra, dividere le tribù, seminare scompiglio nella loro tetragona unità, dettata dall’adorazione del capo e garantita dal “dolce far niente” di questi due anni. Anche i Fini sembrano giustificare i mezzi. Qualcosa, invece, non molto lontano dalla politica, si muove. Perché i “luoghi comuni” non bastano più a una società che chiede soluzioni. Perché non ci si può fermare sulla soglia e, pensando a quel film nelle sale di questi tempi, Welcome, sul confine: bisogna entrare nel merito.
Ecco l’idea dello sciopero degli stranieri. Che parte da una domanda che tutti dovrebbero porsi, prima di tante altre: «Non volete immigrati tra i piedi? Benissimo: provare per credere. Che cosa accadrebbe se i 4 milioni di immigrati presenti in Italia incrociassero le braccia per un giorno? Se migliaia di infermieri, pizzaioli, muratori semplici e specializzati, saldatori, mulettisti, badanti, baby sitter, cassiere, capireparto, artisti, mediatori culturali ed educatori, addetti alle pulizie negli uffici, custodi e camerieri, centralinisti, magazzinieri, operatori informatici, insegnanti, medici… si fermassero tutti insieme?».
C’è un gruppo su Facebook (7000 adesioni in pochi giorni). C’è un blog (www.primomarzo2010.blogspot.com) con tutte le “istruzioni per l’uso”. C’è l’iniziativa di un gruppo di donne, guidato da Stefania Ragusa, Daimarely Quintero e Cristina Seynabou Sebastiani. Perché i democratici italiani, iscritti e simpatizzanti, non si mettono a disposizione di questo progetto? Perché, oltre al «soldato Sarubbi» (lasciato fin troppo solo in una battaglia decisiva), non ci si muove tutti-ma-proprio-tutti insieme, all’insegna di quell’alleanza tra vecchi e nuovi cittadini che non abbiamo mai praticato? Perché stiamo incredibilmente lasciando questo spazio di iniziativa ad altri, dimenticandoci che non c’è tema più costituzionale di questo? Come già in passato, mi si risponderà: così si perdono voti. Molto triste e tutto da dimostrare. Una cosa è certa: ci si guadagnerebbe in dignità. E si scoprirebbe magari quell’identità del Pd di cui spesso sentiamo parlare, nei congressi e nei dibattiti, e di cui si trova ancora troppo flebile respiro nella società italiana. Perché in nome della cittadinanza e del rispetto dei diritti di chi lavora, di chi produce il 10% del Pil, di chi paga le tasse (e non le può evadere, tra l’altro), di chi paga e pagherà la pensione anche a noi italiani, non ci mobilitiamo? Sarebbe bello, sarebbe democratico.
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