Archivio mensile:Gennaio 2014

Ricapitolando

Renzi è il segretario del PD. Letta è il Presidente del Consiglio. Alfano è la punta di diamante degli alleati di governo di Letta. Renzi dice che non vuole creare problemi al governo Letta, ma vuole che si faccia qualcosa. E quindi chiede un patto per il 2014. Letta e Alfano vogliono il patto per il 2014. Però si discute sui contenuti del patto. Renzi spinge per civil-partnership, job-act (ricordate, quando si passa all’inglese c’è sempre la fregatura), Bossi-Fini, ius-soli e FIni-Giovanardi. Alfano non ne vuole sapere. Letta media. Letta, Renzi e Alfano dicono che la priorità è il lavoro. Il governo sostenuto da Letta, Renzi e Alfano non fa nulla per il lavoro. Renzi si arrabbia. Epperò dice che si vota almeno nel 2015. Letta dice che si vota almeno nel 2015. Alfano dice dice che si vota almeno nel 2015. Però serve la legge elettorale. Renzi la vuole fare con chi ci sta e propone tre modelli diversi (forse sa che il PD non arriverà mai ad una sintesi, e butta la palla dall’altra parte). Però Alfano dice che bisogna accordarsi prima con la maggioranza di governo. Però non si capisce su quale testo. Però intanto si discute. Epperò intanto si perde altro tempo. Letta ha i sudori freddi. Renzi scalpita. Però si candida a Sindaco di Firenze, contro il logorìo della vita moderna. Che non si sa mai. E però nel frattempo incalza il governo, e la sua maggioranza. E però sa che se tira troppo la corda si spezza. E però continua a fare proposte che  Letta e Alfano non potranno mai accettare. E però non gliene può fregà di meno altrimenti quello fregato è lui. E però si faranno i soliti compromessi al ribasso. Epperò non si può dire che non si sapeva. Epperò ci sta pure chi propone qualcosa di diverso. Epperò indietro non si torna.

Epperò poi arriva Napolitano e mette Renzi, Letta e Alfano d’accordo.

Non passa la bellezza

Non so perché mi vengano queste considerazioni irrimediabilmente quando vado in Sicilia, e a Palermo. È una terra che sto imparando ad amare. Che già amo, in fondo. Amo le sue persone, le mie persone. I suoi luoghi e i miei luoghi, o quantomeno quei luoghi che sento già miei. Dopotutto le stesse cose potrei pensarle andando a Napoli, ma anche a Milano, se la frequentassi più di quanto non abbia fatto fino ad ora.

Quindi la Sicilia, quindi Palermo. Probabilmente a livello del mio inconscio nasce un conflitto: tra le bellezze in cui sei immerso, la ricchezza di storia e di cultura, la generosità e l’amicizia sincera delle persone e il degrado, materiale e morale, passato e recente.

Capita così che sei in giro per il centro e passi in una piazza qualunque, come ce ne possono essere altre, in città. E insomma sei a piazza San Francesco da Paola e i suoi giardinetti sono un tutt’uno con i rifiuti che ne fanno parte, e noti una ragazza che parla al telefono su una panchina, una ragazza come tante, con un accento che può essere quello della Palermo “bene” che nel tempo inizio a riconoscere rispetto alla cadenza vastasa (è qualcosa che ricorda la ex ministra Prestigiacomo e lo so che non sto portando un bell’esempio e lo so anche che non è di Palermo, la Prestigiacomo ma ci siamo capiti). E lei sta lì, come se quella munnezza che ricopre la piazza facesse parte del paesaggio, ci sta immersa come se fosse del tutto normale quel degrado che violenta quella piazza come tanti altri luoghi di Palermo, di Bagheria, di Santa Flavia, di Porticello e di chissà quanti altri luoghi in Sicilia e nel sud Italia e nell’Italia tutta. E allora mi viene da pensare a come in definitiva quella ragazza si sia abituata a quella munnezza, a come si sia abituata al brutto. E tutto diventa sopportabile. Il degrado materiale e insieme il degrado morale. Perchè la bellezza finisce per essere disarmata.

E lo stesso ragionamento si può fare per quello che succede nella società tutta. O magari no, però a me viene da farlo. Quelle immagini dell’estate del ’92 riprese nel film di Pif (che non è un capolavoro ma è un bel film che ti fa ragionare, e ricordare, e vale la pena di vederlo) che fanno vedere i palermitani che pretendevano, a ragione, di poter entrare nella cattedrale di Palermo per i funerali di Paolo Borsellino e della sua scorta. Nella drammaticità di quella primavera la bellezza (passatemi il termine) della rivolta civile che sembrava poter avere il sopravvento sul brutto che stava per fagocitare tutto e tutti. Ma anche in questo caso la bellezza resta disarmata, giorno dopo giorno, lentamente, ma inesorabilmente e nemmeno te ne accorgi. La mafia e l’antimafia, lo stato e l’antistato, la trattativa e chi continua a morire. Tutto si confonde, i confini diventano labili.  E tutto diventa normale, quindi sopportabile. E chi non si adegua può sempre scegliere di vivere da isolato, o di andare via, o di farsi ammazzare. O di continuare a lottare affinché la bellezza non passi.

Come è sempre successo, dopotutto.