Verso la fine degli anni ’80 uscì con La Repubblica una collezione di figurine di personaggi storici disegnati da Giorgio Forattini, un po’ prima che iniziasse a perdere colpi, insomma.
Sul mio quaderno degli appunti da liceale attaccai la figurina di Yasser Arafat. Quando mi iscrissi all’università, nel 1990, una delle prime cose che feci da fuorisede fu quello di comprarmi una kefiah da un ambulante all’interno della Città Universitaria (trattativa abbastanza breve, chiedeva 20.000 £, gliene diedi 11.500). Ero sensibile alla questione palestinese, “tifavo” Palestina. In effetti si tifava, e per me fu abbastanza normale schierarmi apoditticamente pro-Palestina. A chi mi chiedeva il perché della kefiah rispondevo che per me era un gesto di solidarietà nei confronti del popolo Palestinese. Mi sembrava assurdo che un Popolo fosse senza patria, e mi sembrava ancor più incomprensibile che la negazione della terra, dell’identità di una nazione, avvenisse ad opera di un altro popolo, quello di Israele, che aveva patito sulla propria pelle persecuzioni, fughe, diaspore, e tutto quello che ben conosciamo.
Inizia a documentarmi, volevo saperne di più, lessi e rilessi libri sull’argomento, imparai a memoria pezzi tratti dai saggi di Edward Said, uno dei massimi esperti della questione Palestinese. La speranza, in quegli anni, era che i negoziati di pace arrivassero a qualcosa, visto che la spirale di odio aveva raggiunto livelli disumani. Mi colpiva il fatto che in Israele i genitori con più figli, la mattina, mandassero i ragazzi a scuola su autobus diversi, così almeno se un autobus saltava per aria c’era più possibilità che qualcuno si salvasse. E mi colpiva la violenza feroce dell’esercito israeliano, che uccideva indiscriminatamente uomini, donne, bambini, anziani, giustificando il tutto con l’esigenza di autodifendersi dalla volontà di distruzione. Sono passati ancora vent’anni e più, ci sono stati i trattati di Oslo, e poi altri ancora, e le guerre in Iraq. E si sono succeduti i leader, arabi, israeliani, mondiali. Se ne parla di meno, ma la questione israelo-palestinese, che porta con sé la pacificazione dell’intero medio-oriente, sta ancora tutta là. E l’uccisione dei tre ragazzi israeliani ce la sbatte nuovamente in faccia in tutta la sua drammaticità, con le rappresaglie, con accuse reciproche.
Insomma, la pace fa paura, e ci sono ancora troppi attori di questa storia che la pace, in fondo in fondo, non la vogliono.