Storia di tradizioni, di sapori e di sentimenti

Questa storia parte da qui.

Anzi no.

Questa storia parte materialmente da Valledolmo, in provincia di Palermo. Ma ha una genesi molto più profonda, che ha a che fare si con la terra, ma soprattutto con le radici dei sentimenti. E se avrete la pazienza di leggere, qualcosa lo intuirete.

La materia prima

Dicevamo, Valledolmo, provincia di Palermo, dove viene coltivato il pomodoro siccagno. Se ne volete sapere di più guardate qui.

Il primo pensiero va a chi raccoglie il pomodoro. La fatica che sa fa a spaccarsi la schiena noi comuni mortali, fortunati a non dover fare lavori manuali massacranti per campare, possiamo solo immaginarla. E quindi tutto il mio rispetto ai lavoratori dei campi, agli operai agricoli, ai coltivatori onesti che non sfruttano mano d’opera, che non riducono le persone in schiavitù come purtroppo ancora oggi nel nostro Paese capita troppo, troppo spesso.

Nel caso specifico un piccolo produttore locale ha fornito la materia prima, raccolta il giorno precedente l’acquisto con le sue stesse mani nelle ore più fresche (si fa per dire) della giornata.

Caricata la macchina, si torna verso casa, si scaricano i 300 kg di pomodori e si aspetta il giorno fatidico per fare la salsa (anzi i giorni fatidici, perché il giorno dopo la salsa tocca ai pelati, ma questo lo vediamo poi).

GIORNO 1 – LA SALSA

Che poi c’è un giorno -1, quello della selezione dei pomodori: quelli perfetti, senza ammaccature, senza puntini che lasciano presagire la possibilità della presenza di qualche difetto interno, destinati ai pelati. Gli altri, invece, buoni per la salsa. Su 300 kg di prodotto, lo scarto, i frutti marciti, ammuffiti, andati a male, sarà stato di un paio di kg al massimo. Quando si dice la qualità della materia prima.

Il tutto fatto da chi sa, dal capo.

Che poi c’è anche un giorno zero, che è quello durante il quale si lava il pomodoro, si asciuga per bene e si sistema nelle cassettine pronto per l’indomani.

Si parte da qui, dalla cassetta scaricata. E poi a seguire.

L’oro di Valledolmo

Lavaggio in tinozza

Lavaggio con acqua corrente

Asciugatura

Mani sapienti ripongono i pomodori, perfettamente asciutti, nelle ceste, pronti per il giorno dopo.

La deposizione

Dicevo, perfettamente asciutti. La prima cosa che si impara è che l’acqua è nemica del pomodoro, della salsa, dei pelati, del lavoro che stai facendo e della fatica che stai per compiere. L’acqua, croce e delizia della Sicilia dei serbatoi sui tetti delle case, centellinata in un regione ricca d’acqua che però non arriva alle case dei suoi abitanti, anno del Signore 2020.

E quindi, il giorno 1 sveglia alle 5.30, ancora un po’ a poltrire poi si sale in terrazza, il tempo di vedere sorgere il sole dallo spicchio di visuale che ancora consente di vedere il mare, tra le case costruite senza senso, pensate apposta da menti malate per deturpare il paesaggio, un caffè e via, alle 6.30 tutti operativi.

Prima operazione, il taglio dei pomodori. Per due motivi: eliminare eventuali imperfezioni che potrebbero sempre nascondersi all’interno, e poi per facilitare la prima cottura.

Ok, il taglio, ma come tagliare? E qui interviene la sapienza, l’esperienza, la tradizione. Di chi ha fatto questo lavoro prima di te e che a sua volta l’ha imparato dai suoi genitori, le cose belle che si tramandano, che si insegnano ai meno esperti. E tu, alle primissime armi, non puoi che farti un bagno di umiltà e ascoltare, guardare come si fa, provare a replicare l’esempio. All’inizio tra qualche cenno di dissenso, la necessità di ulteriori spiegazioni per chiarire il concetto. Poi inizi timidamente a prendere la mano, come in tutte le operazioni che seguiranno, e il silenzio diventa approvazione, e sai che stai facendo bene, allora vai, e arrivi a questo.

Il pomodoro tagliato

Che poi questo vuol dire una pentola da 30 litri nella quale ci sono una quindicina di kg di pomodori fatti diciamo a metà ma ancora belli sodi che devono, per quanto possibile, essere ridotti in poltiglia per poi essere avviati al fuoco, operazione fondamentale perché se si mettesse tutta la mappazza subito sul fuoco il calore farebbe attaccare tutto e addio salsa, invece con la prima spremitura esce quel quantitativo di polpa e di liquido che consente di procedere alla prima cottura con un po’ più di tranquillità. Allora, chinato sul pentolone ho immerso le mie mani e iniziato a spremere, e spremere, e spremere. Rimestare e spremere. Dopo cinque minuti (vabbè, sono fuori allenamento, lo so), dico 5 minuti, avevo le mani anchilosate e le braccia mi stavano per cadere e pensi alle nonne, a quelle loro braccia che pure dopo averne viste e fatte tante per decenni stanno ancora là a impastare, e pensi alle donne in generale e alle cose di fatica che spesso solo loro fanno e tu ti chiedi come fanno a farle, e insomma ti chiedi tutto questo, senti il dolore sulle tue di braccia e ti senti tanto una merda.

Detto questo, arriva fortunatamente subito l’automazione, che ha la forma salvifica di un trapano da muro al quale viene attaccata anziché una puntazza un attrezzo per impastare calce, gesso, cemento, tipo frusta di quelle che si hanno in casa per fare i dolci ma molto più grande, e il gioco è fatto. Una innovazione introdotta quest’anno che riduce la fatica fisica tanto nello schiacciare i pomodori quanto nel mescolarli nel pentolone che sta sul fuoco per non fare attaccare tutto. In questo modo, a detta di chi sa, tutto diventa una babbiata. E, vi garantisco, le mie braccia stanno ancora ringraziando.

A questo punto le cose procedono abbastanza spedite. Abbastanza. Da quando inizia a bollire l’intruglio (ciascuno fa il suo, da queste parti al pomodoro in cottura si aggiunge solo una cipolla e basta) si aspettano altri venti minuti, dopodiché si può passare alla fase successiva, ossia la spremitura con annessa separazione delle bucce.

Maxi pentola a bollire

Spremitura

Dai, chi non ha mia visto un arnese del genere in vita sua alzi la mano!

Tutto fatto? manco pe’ niente. Prima dell’imbottigliamento si rimette tutto sul fuoco e si aspettano altri venti minuti da quando la salsa riprende a bollire, venti minuti che possono essere di più o di meno a seconda di quanto è liquida la salsa. E la liquidità della salsa dipende da quanta acqua ha preso il pomodoro, e tenendo conto che da quando viene piantato il siccagno non viene mai innaffiato, basta una pioggia abbondante fuori stagione (vedi l’alluvione a Palermo e zone limitrofe di luglio) e ti ritrovi con un pomodoro molto più ricco di acqua.

Ri-bollitura della salsa

Ora si può passare all’imbottigliamento, operazione delicata prima perché bolle tutto che pare lava fusa e non ti puoi distrarre un attimo (anche le bottiglie sono riscaldate fino ad essere roventi in formo primo per sterilizzare ancora il tutto, secondo perché lo shock termico tra bottiglia fredda e salsa bollente spaccherebbe la bottiglia e immaginate il macello) e poi perché fare casini dopo tutta la fatica sarebbe davvero un peccato. Prima di versare, però, non ci si può dimenticare una fogliolina di re basilico, il re degli aromi per il principe pomodoro, connubio inscindibile del mangiare semplice ma con un gusto indimenticabile.

Re basilico

Imbottigliamento

A questo punto che fine fanno le bottiglie? Da queste parti dice che si fa la salsa ammantata. Che vor’ di’? Che le bottiglie roventi si mettono sotto le coperte, al caldo, protette da qualsiasi spiffero d’aria, dove la salsa continuerà la sua cottura fino al naturale raffreddamento.

Le bottiglie ammantate

A questo punto si sono fatte le 17.30, 11 ore circa di lavoro continuo, pausa pranzo sul luogo di lavoro a base di arancina, pezzi di tavola calda, birra attorronata. La tradizione vuole che fitusi  per come si è si vada direttamente a mare per un bagno, e le tradizioni vanno rispettate. Così dritti dritti a mare, per un bagno ristoratore, e vi assicuro che dopo ore e ore in piedi la sensazione di mancanza di peso che si ha in acqua, unita alla frescura del mare, è poesia allo stato puro.

Al giorno 1 manca però una cosa: si può aspettare per assaggiare com’è venuta la salsa? E certo che no. E quindi, la sera, niente di meglio di un piatto di pasta con salsa freschissima, melanzane fritte, ricotta salata, basilico.  Che ve lo dico a ffa’?

La soddisfazione della sera

Diciamo che si può andare a letto soddisfatti, stracchi abbastanza. Che domani si riparte.

GIORNO 2 – I PELATI

Levataccia ma non come il giorno prima, alle 7.30 tutti operativi.

Il lavoro è completamente diverso rispetto al giorno prima, meno faticoso ma più ripetitivo, a catena di montaggio proprio.

Sciacquare rapidamente i pomodori.

Pomodori lavati

Scottare i pomodori per poter togliere la buccia facilmente.

L’ebollizione perpetua

Pelare i pomodori e aprirli in due per togliere i semi all’interno (e controllare che non ci siano imperfezioni).

Tranquilli, non è sangue

Riempire e chiudere i vasetti (cosa viene messo nel vasetto? Il basilico, come ti sbagli?).

Sempre lui

Siam tre piccoli vasettin…

Tutto rigorosamente a mano

Vedere le file di barattoli che si popolano è fonte di immensa soddisfazione.

I soldatini

Red and Gold

Alle 13.30 la prima fase 1 è finita, le mani diventano così ma passa subito.

Non ho ucciso nessuno 2

La mano-spugna

Questa la prima fase.

Come passa il tempo, mentre si lavora? Un po’ si parla del futuro, l’anno prossimo facciamo questo e quello, si prova a capire come migliorare la produzione, quale arnese potrebbe facilitare le operazioni. Un po’ si chiacchiera del presente, di quello che stai facendo, di come lo stai facendo, ci si prende allegramente in giro per i passaggi del controllo di qualità, che ogni tanto ti ricorda come tagliare, cosa tagliare, cosa è buono e cosa no. E in fondo, nel bene e nel male tutte le attività produttive funzionano così, e il pensiero non può che andare a chi in fabbrica o in qualcosa del genere ci lavora davvero, conoscendo esattamente quello che farà il giorno dopo e il giorno dopo e il giorno dopo ancora, per anni, per la vita. Timbri un altro giorno e tiri avanti, così cantano i fratelli Severini. E poi si parla del passato, si ricordano aneddoti, storie, ma soprattutto persone: sai cosa avrebbe detto la nonna se ti avesse visto a fare ‘sta cosa? Ti ricordi quella volta che la nonna…Perché in fondo parte tutto da lì, dalle persone care che non ci sono più ma è come se ci fossero sempre, stanno da qualche parte e tu lo sai, lo senti, ed è bello e confortevole ricordare con gioia le persone della tua vita, perché è esattamente così che ci vorrebbero guardare da dove stanno.

La seconda fase del pelato consiste essenzialmente nella bollitura dei vasetti.

Pronti per essere bolliti

Si sistemano accuratamente i vasetti nei pentoloni, in maniera tale da farli muovere. Due strati intervallati da pezze che attutiscono eventuali movimenti durante il sobollimento, un disco di acciaio a coprire il tutto e un bel mattone a fare da peso, coperchio e via col fuoco. Venti minuti di ebollizione e poi una operazione delicatissima. I vasetti bollenti vanno estratti dal pentolone con una pinza e riposti in un altro contenitore con la massima attenzione perché il minimo urto potrebbe spaccare tutto. Quindi si versa l’acqua bollente nel recipiente così la cottura dei pelati può continuare. Tempo un paio di giorni e si possono togliere i vasetti dall’acqua, pronti per essere consumati. Poi vi faccio sapere come è andato il primo assaggio.

Siamo alla fine di questa storia, e magari vi starete chiedendo perché raccontare tutto questo.

Da tempo ho sviluppato una mia personale necessità che è quella di scrivere semplicemente per fissare i concetti, perché davvero inizio a perdere colpi e se non scrivo non ricordo quasi niente. Quindi se volessi replicare tutto il procedimento, trovarlo già scritto mi aiuterebbe a non perdermi pezzi. Una esigenza tutta mia e puramente materiale, se così possiamo dire.

Però poi c’è anche l’esigenza del ricordo, della memoria, del racconto, del rinnovo della tradizione, perché senza memoria del passato, senza le radici, il futuro diventa maledettamente complicato.

Leggere Francesca Mannocchi, oggi per domani

Lasciate stare le menate complottiste, i libri che parlano di teorie fantascientifiche, tipo che lo scanner per la temperatura fa male al cervello o che il grande fratello mondiale del club Bilderberg ci dirà come cucinare la pasta.

Scendete nel mondo reale e sporcatevi le mani con la brutalità della guerra, di cosa ha generato i conflitti e di cosa li genererà domani.

Del libro se ne parla con molta più cognizione di causa su Minimaetmoralia, qui,

Se invece volete avere idea visiva di quello che Francesca descrive nel suo libo e che potete solo immaginare, trovate bellissime fotografie di Alessio Romenzi qui.

Nell’articolo di Minimaetmoralia sono evidenziati i passaggi fondamentali del libro, tanto fondamentali che coincidono con i punti nei quali faccio l’orecchio alla pagina, per ricordarmi di dove stavano le cose da rileggere, da mandare a memoria.

La vendetta, Kill ‘em all. 

E questi bambini figli di Isis di pochi anni, 5, 6, 8, di cui non si cura nessuno. Per i quali nessuno ha previsto uno straccio di percorso di de-radicalizzazione, non foss’altro per evitare ulteriori guai in futuro.

E poi però ci sono le cose che colpiscono ciascuno di noi in maniera diversa. Personalmente mi sono rimasti impressi i racconti di uomini e donne nel campo profughi di Al Jaddah, dove sono accampate migliaia di persone sfollate da Mosul e dove i soprusi perpetrati ai danni dei familiari di Isis coltivano il seme dell’odio e lo fortificano, ahinoi, per il futuro.

In generale però pensavo ai campi profughi, agli innumerevoli campi profughi sparsi tra Medio Oriente e Africa, e ai campi dove si ammassano gli esseri umani che provano a fuggire a guerre e a miseria, in Grecia, nei Balcani, a Calais, alla frontiera tra USA e Messico, alle condizioni disumane nelle quali le persone sono costrette a vivere per il solo fatto di desiderare una vita migliore. E al voltarsi dall’altra parte di molti, troppi, a tutti i livelli.

A questo pensavo.

Gli Stati Popolari

Due passi a Gli Stati Popolari, domenica pomeriggio, me li sono fatti. Ma due due. Ero uscito con l’intenzione di ascoltare, prima di tutto. E poi di fare qualche foto, che mio papà m’ha passato ‘sto vizio e non posso farci niente. Però un po’ che sono andato alle quattro e mezza e sembrava davvero di stare nella Death Valley anziché a Piazza San Giovanni, un po’ che per quanto fossero continui gli appelli a stare distanziati avevo la percezione che si stesse troppo vicini e io non sono ancora pronto a stare in mezzo alla folla, fatto sta che me ne sono andato via presto, e quindi il clou della manifestazione me lo sono perso.

Ho avuto il tempo di scattare qualche immagine, salutare un paio di compagni di quelli veri, incontrare Papa (non IL Papa, ma Papa, il Boss, chi lo conosce, sa) e maturare qualche impressione.

Chi c’era in piazza a manifestare?

Gli invisibili.

Quelli che esistono e che in molti fanno finta di non vedere.

Quelli che raccolgono la frutta e la verdura e gli ortaggi che mangiamo ogni giorno. Quelli che ci portano il cibo a casa quando ci rompiamo di uscire di casa. Quelli che ci portano a casa oggetti di cui molto spesso potremmo fare a meno. Quelli che mandiamo a quel paese all’ennesima telepromozione. Quelli che tengono puliti i nostri uffici. Quelli che tengono puliti i nostri treni. Quelli che insegnano ai nostri figli e che restano disoccupati alla fine di ogni anno scolastico.

Quelli. Avete capito.

Ce ne sono tanti, nel nostro Paese. Che chiedono di non essere più invisibili. E però dare rappresentanza a questo mondo è bello complicato. Se ne parla bene qui.

In effetti anche per quello che ho potuto vedere, e per quello che ho potuto percepire, domenica in piazza non c’erano particolari sponsor politici. In questa fase meglio così, ci vuole davvero poco a trovarsi sul palco un Ferrero che si trova a passare di là.

Vista dal lato sindacale, pur conoscendo tutti gli sforzi che fa la mia CGIL per provare a rendere visibili queste lavoratrici e di questi lavoratori attraverso la rivendicazione dei loro diritti (penso alle battaglie fatte per i rider), penso di poter dire che la maggior parte delle persone che hanno riempito quella piazza dalla CGIL non si sentano rappresentati. E questo, oltre che dispiacermi, mi fa capire che occorre darsi una mossa, e occorre essere credibili e fare uno sforzo immane per intercettare queste criticità e scardinarle dalle fondamenta. Entrare nei luoghi di lavoro, anche quelli dematerializzati, studiare, capire e soprattutto dare risposte, senza tentennamenti, per estendere le tutele a chi oggi è in balìa di imprenditori e manager senza scrupoli, senza morale, dediti solo al potere e al profitto. E su questo, per come la vedo, non dovrebbero esistere accordi al ribasso per tener conto di diverse sensibilità. L’unità sindacale non è un valore in sé se porta a diritti a metà, a tutele a metà. Serve essere radicali. Anni e anni di compromessi ci hanno portato esattamente al punto in cui siamo. Anche prima dell’emergenza sanitaria che ha poi fatto esplodere tutto il sistema produttivo. Ma la ripresa non può fondarsi sullo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori. Il ricatto occupazionale deve trovare un muro invalicabile. Altrimenti quella piazza, quelle piazze continueranno ad essere frequentate da invisibili.

Abbattere o non abbattere?

Molti di voi conosceranno Remo Remotti. Se no, fate in tempo a recuperare.

Remo Remotti attore, poeta, pittore, scrittore. Artista. Folle.

Una delle sue cose più note è sicuramente la poesia Mamma Roma addio, che vi faccio riascoltare.

Alla fine Remotti dice:

“Me andavo da quella Roma
della Banca Commerciale Italiana
del Monte di Pietà
di chi cazzo
di Campo de’ Fiori
di Piazza Navona
quella Roma – Che c’hai ‘na sigaretta? –
e prestame cento lire
quella Roma del Coni
del Concorso ippico
quella Roma del Foro
che portava e porta ancora
il nome di Mussolini
me n’andavo da quella Roma di merda

Mamma Roma! Addio”.

Ecco, a me ha sempre colpito quella frase sul foro Mussolini. Che se andate allo stadio Olimpico vedete che ci sta ancora l’obelisco con la scritta Dux e altre varie amenità. E più volte mi sono chiesto se e quanto fosse corretto tenere lì quei segni della storia, o quanto fosse pericoloso. Se non fosse meglio abbattere quell’obelisco, o quantomeno eliminare la scritta Dux. Eliminare quel simbolo. E però una risposta me la sono data, e cioè che più si è forti nel proprio presente per gli insegnamenti che la storia ci ha dato, e meno occorre temere della storia stessa, del suo ritorno, ed è bene che certi simboli stiano lì, a ricordare quanto terribile e nefasto possa essere stato un periodo storico, o un personaggio.

Sia chiaro, capisco l’impulso irrefrenabile dell’iconoclastia laica, soprattutto a seguito di eventi che generano indignazione, rabbia, frustrazione. Del tipo di quelli che si sono scatenati negli USA a seguito dell’assassinio di George Floyd. E allora può essere comprensibile prendersela con quelle statue, con quei simboli di schiavismo, di colonialismo, negli USA o altrove nel mondo. Perché quelle statue incarnano proprio la sofferenza, l’ingiustizia, l’errore della storia da non ripetere.

Ma replicare quelle proteste nate in quei contesti socio-ambientali che ci parlano del razzismo che ancora oggi pervade larghi strati della società americana, e prendersela con la statua di Montanelli, a che serve?

L’errore di fondo a mio avviso è stato proprio quella di farla, una statua a Montanelli. Sentivo l’altro giorno Paolo Mieli dipingere Montanelli come una pietra miliare della letteratura italiana del 900. Ma dove? Ma quando? Per quali meriti letterari? Per aver cresciuto alla sua scuola Marco Travaglio? Ma detto questo, l’orrore del suo essere fascista dentro e fuori, per i comportamenti aberranti tenuti in Abissinia prima e per non sentire il dovere morale di chiedere scusa poi, forse meritano di tenerla là quella statua, come il foro Mussolini, a imperitura memoria degli errori della storia e degli errori degli uomini. Così chi ci passerà davanti sarà libero di ricordare che grandissimo pezzo di fango fosse quell’uomo e quanto mostruose fossero le idee in cui credeva, alla faccia della contestualizzazione della storia.

Se poi proprio non riuscite a trattenervi dal tirare secchiate di letame o di vernice alla statua di Montanelli, non sarò certo io a fermarvi.

La strada è una scelta vostra

Alcune immagini del sit-in della comunità di Baobab Experience che si è tenuto in Campidoglio mercoledì 17 giugno.

Le persone che manifestano per il diritto all’accoglienza sono rese clandestine dalla Bossi-Fini, dai decreti Salvini e dalla mancanza di intervento delle Istituzioni, in primis il Comune di Roma.

Sono persone note alla Questura che nonostante ciò continua sgomberare il presidio di Piazzale Spadolini per identificare persone già identificate più e più volte.

Sono persone che hanno diritto all’accoglienza non per capriccio ma in base a leggi dello Stato che sono puntualmente disattese. Richiedenti asilo, fruitori di protezione umanitaria.

Sono persone che chiedono di poter vivere in pace e con dignità.

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Di classe operaia, di dignità, di musica che ti emoziona

Mi sa che l’ho detto più di una volta, ma nel corso della mia adolescenza sono cresciuto a pane e musica. Cassette (tante, rigorosamente registrate da amici) consumate, vinili (pochi, chi ce li aveva i soldi per comprarseli) che frusciavano su piatti improbabili, ma una colonna sonora ad accompagnarmi c’era sempre e comunque. Amici di amici che spacciavano cassette sottobanco: “uee’, ascolta questo!”. “No dai questo lo devi sentire assolutamente!” e così via.

Capitò quindi che attorno ai 16 anni Gianluca mi presentò Gianni, che aveva due tre anni più di noi e che comunque era già automunito, e iniziammo ad uscire insieme. Gianni era folgorato per i Gang e così quando si usciva in macchina mettevamo a palla Barricada Rumble Beat e si andava. Alla fine Gianni non si chiamava più Gianni ma il suo nome era diventato Bad News.

Quando lo vedevo gli urlavo: “Ueee, Bad News!”

Perché Bad News? Da questo:

All’epoca i Gang cantavano esclusivamente in inglese, e la loro musica era infarcita di tutte le loro esperienze e loro influenze artistiche. Nel 1991 sarebbe arrivato “Le radici e le ali”, primo disco in italiano che segna in maniera definitiva il loro schierarsi dalla parte degli ultimi della terra, senza se e senza ma.

Ho continuato ad ascoltarli nel tempo, insieme a tutto il resto. Ma comunque capita che qualche cosa te la perdi, e qualche pezzo che non hai sempre sottomano si va a mettere in un angolino del cervello e aspetta solo di essere tirato fuori. Uno di questi è Sesto San Giovanni.

Meno male che ci ha pensato Mariadele, con i suoi Freak Out String Quintet prima e a Stazione Tiburtina l’altro giorno.

Ve le faccio sentire tutte e due, la cover e l’originale dal vivo.

Impressioni di maggio

Al sessantaquattresimo giorno sono uscito. O meglio, mi sono allontanato di più di 200 metri da casa. Ancora un po’ e avrei potuto scrivere Il giro di casa in 80 giorni. 

Uscito, poi. Insomma. In macchina da casa fino a destinazione, Google Maps dice 8,9 km ad andare e circa quelli per tornare.

Impressioni.

Anche a Roma la natura ha provato a riprendersi la città. Cioè, non ha mai smesso. E bisogna riconoscere che ci riesce abbastanza bene, con Virgy che le dà una mano da tre anni ormai. E poi colpiscono i manifesti, sui cartelloni, sui muri, lisi, strappati, sbiaditi, che riportano eventi lontani, passati, abortiti.

Gente in giro si, ma non tanta. Solito andamento del traffico tendente all’anarchico, solite macchine in doppia fila, soliti ciclisti  e motorini che passano con il rosso. Che poi prima si poteva avere fretta, ma adesso?

Chi era stronzo è rimasto stronzo, chi non lo era si spera che non lo sarà mai.

E questo in generale vale per tutte le aspettative che l’emergenza sanitaria ha generato in questi due mesi e passa. Non mi sembra che a livello collettivo sia maturata, o sia divenuta patrimonio comune, l’esigenza di un modello di sviluppo diverso, di una maggiore cura per il pianeta, per la salute pubblica, per chi è rimasto indietro, per chi è povero. Chi aveva già questa sensibilità magari l’avrà accresciuta, nella consapevolezza che nessuno si salva da solo, chi non ce l’aveva prima si sarà sempre più convinto che ciascuno basta a sé stesso, e gli altri si fottano.

Per non parlare del clima politico, del dibattito politico. Sempre, immutabilmente, desolatamente uguale. Una classe politica specchio fedele del Paese che l’ha espressa, ci fosse qualcuno capace di indicare concretamente una strada diversa per evitare gli errori del passato. Quegli errori che hanno chiesto il conto tutti in una volta, da febbraio ad ora e per chissà quanto tempo ancora, stando così le cose. La demolizione della sanità pubblica, la mortificazione della scuola e della ricerca, lo smantellamento degli apparati dello Stato, la negazione dei diritti dei lavoratori e dei cittadini che versano in condizioni di difficoltà economiche. Con il volontariato a tappare quei buchi che chi ha creato ha lasciato lì a diventare voragini.

E poi l’effetto Actarus.

Vedi le persone, molte ma fortunatamente non tutte, con le mascherine, con i connotati nascosti. È una mia percezione distorta, ma mi appaiono come automi, come corpi senza anima, come ombre. La distanza che quel pezzo di stoffa mette tra te e l’altro mi appare abissale, a maggior ragione se poi negli occhi intravedi paura, diffidenza, angoscia. Ancor più mi appare insostenibile questa barriera fisica al pensiero di relazionarmi con persone che conosco, con persone a me care, con gli amici, che usualmente abbracciamo, tocchiamo, stringiamo. La prima sensazione è quella di fuggire da questa nuova realtà, e di volere tutto esattamente come prima, senza barriere, senza vincoli, senza preoccupazioni, senza surrogati, senza compromessi, aspettando il ritorno alla completa normalità. Poi magari ci facciamo l’abitudine, ma per ora non è così.

Un po’ di più che un post da strapazzo sui social

Un giorno forse mi verrà voglia di scrivere qualcosa di serio su questi due mesi surreali, su questo tempo duro, durissimo (ma non chiamatela guerra, grazie) che ci ha tenuto come sospesi e che ha sospeso pure la mia voglia di scrivere, di mettere in parole le sensazioni, i sentimenti, di capire meglio sé stessi semplicemente lasciando fluire i pensieri tra cervello e dita. Roba troppo grossa, per ora. Non è il tempo, ancora.

Forse per esorcizzare l’indeterminatezza della situazione ed essere più leggeri, quello strano mondo parallelo che sono i social ci hanno messi a durissima prova con quelle catene di San Zuckerberg su libri, canzoni, film. Ho fatto la mia parte, e mi scuso se ho coinvolto qualcuno che di catene e di santi proprio non vuol sentir parlare, e mi scuso pure se qualcuno moriva dalla voglia di essere coinvolto e me lo sono dimenticato. Per autocitarmi, si potrebbe davvero andare avanti all’infinito, co’ ‘ste cose.

Ciascuno di porta nel cuore i suoi libri e la sua musica e i suoi film, e nei socialgiochetti uno, appunto, ha giocato, magari provando ad associare il libro, la canzone, il film ad una o a più persone da coinvolgere nel cazzeggio. E quindi magari non sempre le scelte hanno riguardato i libri, le canzoni, i film per me fondamentalissimi.

Prediamo i film, ad esempio.

A ripensarci il primo film che ha lasciato in me una emozione profonda e che ancora mi suscita le stesse sensazioni ogni volta che lo vedo è Qualcuno volò sul nido del cuculo.

Non starò qua a fare il critico cinematografico, non ne sono capace. Ma le scene in cui Bromden rivela a McMurphy la sua normalità (“Li hai fregati tutti”), e poi Bromden che scappa via dopo aver liberato McMurphy sono, per me, poesia pura. C’è tutto, nel film: la ribellione contro il potere costituito, contro le ingiustizie, la paura del mondo, la forza del desiderio della libertà. Credo avessi quindici anni o giù di lì quando l’ho visto per la prima volta, da persona consapevole che si affaccia alla vita, e sono quelle cose che ti porti dentro, che entrano a far parte di te anche se non lo sai, ma stanno là, e quando meno te lo aspetti escono fuori e tu non puoi fare altro che prenderti quello che viene.

Prendiamo la musica, poi.

La musica fa parte della nostra vita, della mia vita (ne ho parlato qualche tempo fa qui), ascoltare musica è come respirare, credo per molti di noi. Ovvio che da bambini, da preadolescenti, qualcosa ti arriva. Inizi a condividere con i compagni delle elementari, o delle medie, qualcosa che senti in giro, per radio (sempre accesa a casa nostra), o che so, a Sanremo, e poi a DeeJay Television. A 12 anni avevo una passione smodata per Vasco Rossi e Billy Idol, dopo aver già assaggiato The Knack, I Police, i Man at Work, i Dire Straits. Avevo iniziato a far entrare Bruce Springsteen dentro la mia vita (e avrebbe scavato molto, tanto a fondo, ma questa è un’altra storia) Ma quello che mi ha fulminato in quella fantastica estate del 1985 e che ha segnato l’evoluzione dei miei gusti in fatto di musica è stato questo.

Dopo aver ascoltato l’assolo di Jimmy Page, e la batteria di John Bonham, nulla è stato come prima.

Sui libri magari ci torno.

Intanto ecco qui, magari la voglia di scrivere è tornata, magari no. Forse è solo la necessità di prendersi un po’ di tempo per sé.