Quel giorno di vent’anni fa ero in Francia. Una settimana di vacanza con l’amico Fabio in un paesino al centro del Paese che si chiama Roanne. Una specie di scambio culturale, all’insegna dell’amicizia, della spensieratezza, del divertimento. Avevo appena fatto l’esame di Fisica I e partimmo la sera stessa. Non c’erano telefoni cellulari, all’epoca. Chiamavamo noi a casa, quando ce ne ricordavamo. Quindi nessuno ci avvisò. Ricordo che il mattino del 20, presso la sede dell’associazione, il responsabile dell’organizzazione mi mostrò il Corriere della Sera che aveva in prima pagina le foto della strage e mi disse: avete qualche problema, in Italia. Eravamo increduli, una mazzata in pieno stomaco, e corsi a chiamare i miei, come per condividere quel dolore che speravamo non avremmo dovuto provare mai più, dopo il 23 maggio. E invece la mafia, e un pezzo di Stato, s’era portato via anche Paolo Borsellino insieme agli uomini della sua scorta.
La cosa più triste della sua vicenda è il fatto che, lui per primo, sapeva di non avere più molto tempo da vivere. Di non avere scampo. Dead man walking, si sarebbe detto se solo si avesse voluto avere il coraggio di capire quello che stava succedendo, dopo la morte di Giovanni Falcone. Invece, nella solitudine, Paolo Borsellino divenne un bersaglio troppo facile da colpire.
La storia è cambiata ancora una volta, da quel giorno. O forse no. Forse le cose sono davvero andate solo e sempre così, nel nostro Paese. Di sicuro Paolo Borsellino non ha vissuto questi vent’anni che avrebbero messo anche lui nel tritacarne dello scontro politica-magistratura, funzionale agli interessi personali di B. e dei suoi e al quale in molti non si sono sottratti per il solito fottuto, dannato, maledetto senso di responsabilità.