Quando i cittadini elettori esprimono un voto, quella scelta può assumere diversi significati a seconda di dove si posa lo sguardo dell’osservatore. O a seconda delle convenienze di chi si sente coinvolto in prima persona nell’affare.
Sul post-voto del 4 marzo, in questi giorni e in quelli futuri, se ne sentono e se ne sentiranno di tutte le risme. Confido nella saggezza del Presidente Mattarella per uscire vivi.
C’è chi dice di aver vinto e di avere il diritto di governare anche se non è maggioranza, c’è chi ha perso e vuole stare all’opposizione perché lì ritiene che sia stato messo dagli elettori, c’è chi ha perso ma non sente di dover autoescludersi da assunzioni di responsabilità. Si, nel voto di dieci giorni fa c’è tutto questo, e proprio dalla considerazione che non tutto è netto come sembra, o come qualcuno vuole farlo apparire, occorre ripartire per uscirne.
Metto subito le cose in chiaro: vista l’esperienza che vivo a Roma tutti i giorni, e vista la qualità dei personaggi di punta di M5S (Di Maio, Toninelli, Lezzi, Bonafede, Lombardi…), li considero (quasi del tutto) inadatti a governare in prima persona il Paese. Però gli altri vincitori delle elezioni sono i componenti della coalizione di centrodestra a trazione Salviniana, con il loro programma a base di “prima gli italiani”, “fuori gli immigrati”, “con la polizia senza se e senza ma”, “la flat-tax è equa”, “basta Europa” e questo mi basta. Di fronte alla (voluta) vaghezza di M5S su temi cardine quali immigrazione, sicurezza, Europa, vaghezza che però raccoglie consensi trasversali tanto da far ricordare l’ecumenismo della DC, riesco ancora a discernere tra razzisti, omofobi, fascisti, liberisti, populisti, antieuropeisti veri rispetto a chi raccoglie un voto di ribellione e protesta (non solo, ovviamente) rispetto a tutto quello che è stato fonte di delusione fino ad ora, soprattutto da sinistra. E proprio per la storia comune, anche recente, che caratterizza l’elettorato di M5S, di (parte del) PD, di LeU, allora credo che una strada comune vada trovata, se non vogliamo trovarci una destra becera e lepenista al Governo.
Certo, non a tutti i costi. O facendo ricadere i costi dell’operazione esclusivamente su uno dei possibili alleati.
In questi giorni l’arroganza di Di Maio sta assumendo livelli siderali. Aver ottenuto la maggioranza relativissima non implica automaticamente la possibilità di governare. Per lo più da soli. Se il 32 e rotti % degli italiani ha scelto M5S, il 68% NON ha scelto M5S e quindi non si può pretendere che le altre forze politiche si scansino e consentano la nascita di un governo monocolore. Non è un attacco alla democrazia rifiutarsi di collaborare con M5S, e basta con i piagnistei. La maturità politica, qualora raggiunta, implica dialogo, passaggi ufficiali, compromessi, nell’accezione più positiva del termine.
Di contro nel PD ancora bruciano, comprensibilmente, le immagine della diretta streaming del 2013 nella quale Bersani implorava M5S di assumersi una responsabilità per il bene del Paese mentre i suoi interlocutori godevano nell’umiliarlo (a dire il vero immagino abbiano goduto anche un bel po’ di persone NEL PD. Un nome a caso?). Così come è comprensibilmente difficile dimenticare gli insulti (a dire il vero reciproci) che il PD ha dovuto subire, a torto o a ragione, in questi 5 anni di legislatura e durante la scorsa campagna elettorale.
Allora, come provare ad uscirne?
Con due gesti responsabili e nel loro piccolo rivoluzionari, mi si passi il termine.
M5S faccia al PD una proposta ufficiale con 5 punti programmatici chiari e qualificanti sui quali provare a cercare una convergenza. Lavoro, ambiente, diritti, scuola e ricerca, lotta alla criminalità. Se le idee sono quelle di Tridico, credo che bisognerebbe almeno andare a vedere le carte fino in fondo. Di Maio e i capetti vari facciano un passo indietro come gesto di buona volontà e indichino come premier una personalità di alto profilo esterna al Movimento.
Sulla base di questa proposta il PD dia un segnale forte di discontinuità con il passato e utilizzi lo strumento del referendum interno (previsto dallo statuto e mai utilizzato) convocando iscritti ed elettori delle primarie (le ultime o le ultime due) mediante gli elenchi (anche questi mai utilizzati, se non per rompere i cabasisi durante le campagne elettorali). Il referendum l’ha fatto l’SPD in Germania per decidere se sostenere il governo Merkel o meno, non vedo perché non potrebbe essere fatto dal PD per analogo motivo. Se dal referendum scaturirà un no, avranno deciso gli elettori del PD.
Con l’avvertenza che, si dica no subito o no dopo il referendum, ci si assume la responsabilità di mandare al governo fascisti, omofobi, razzisti, populisti, antieuropeisti, liberisti. In Francia, davanti al pericolo Lepenista, le forze democratiche non hanno avuto dubbi. Forse è il caso di prendere esempio.
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