Forse ne ho già parlato da qualche parte. Nel 1992 iniziai a scrivermi con un condannato a morte nel carcere di Huntsville, Texas, che si chiamava Paul Rougeau. Con altri ragazzi che corrispondevano con Paul (Ilaria, Rambaldo, Giovanni, Giuseppe, Stefano a Roma, e altri in giro per l’Italia) creammo un comitato che ho scoperto con piacere essere ancora attivo, a distanza di tanti anni. Provammo a salvare Paul, ma non ci riuscimmo. Uno dei mezzi che utilizzammo per attirare l’attenzione sul suo caso fu la pubblicazione di un libro, Mi Uccideranno in Maggio, con le sue, e le nostre lettere. L’editore di quel volumetto era Sensibili alle Foglie, casa editrice di Renato Curcio. L’altro giorno camminavo, insieme alla mia famiglia, per gli stand della fiera della piccola editoria che si tiene da qualche anno a Roma. E ho cercato lo stand di Sensibili alle Foglie, nella speranza di trovarlo lì, Renato Curcio. E in effetti c’era. Ho voluto stringergli la mano. Non a Renato Curcio. Ma all’uomo, che tramite un percorso di espiazione e redenzione torna ad essere parte della società. Quel percorso di espiazione e redenzione che era stato negato al nostro amico Paul, al di là dell’oceano.
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#FreeHamza
Sottoscrivete l’appello di Amnesty International per salvare la vita ad Hamza Kashgari, il giornalista saudita che rischia la condanna a morte per aver postato tre tweet considerati blasfemi. Ne parla anche Fabio qui.
His Majesty King Abdullah Bin Abdul Aziz Al Saud
The Custodian of the two Holy Mosques
Office of His Majesty the King
Royal Court, Riyadh
KINGDOM OF SAUDI ARABIA
Sua Maestà,
sono un simpatizzante di Amnesty International, l’Organizzazione non governativa che dal 1961 agisce in difesa dei diritti umani, ovunque nel mondo vengano violati. Le scrivo per sollecitarLa a revocare l’ordine d’arresto nei confronti di Hamza Kashgari. Le chiedo di rilasciarlo immediatamente e senza condizioni, che l’inchiesta venga archiviata e che nell’immediato egli possa essere assistito da un avvocato di sua scelta, anche nel corso degli interrogatori.
La ringrazio per l’attenzione.
Due punti dolenti di Obama
Il primo: il mancato riconoscimento dello Stato Palestinese. È inutile continuare a dire che la questione deve essere risolta con il negoziato. Il negoziato, per definizione, si fa tra più parti. Il Governo dell’estremista di destra Netanyahu e del falco Lieberman non hanno alcuna intenzione di negoziare alcunché con i Palestinesi. Quindi, ben venga il voto dell’ONU.
Il secondo: finchè gli USA non aboliranno la pena di morte, per quanto mi riguarda non sono degni di essere considerati un paese davvero civile.
Fermiamo il boia in Iran
Hossein Derakshan è il nome del blogger iraniano che rischia, molto seriamente, di vedere eseguita la condanna a morte inflittagli da un tribunale del regime. Per i suoi familiari la sua colpa è quella di "aver insegnato agli iraniani a bloggare", mentre l'accusa è di “collaborare con stati nemici, aver fatto propaganda contro il regime, aver oltraggiato l’Islam e aver aiutato gruppi anti-rivoluzionari”.
Leggete la sua storia qui.
E firmate la petizione.
Abolire, please!
Sono 6149. I giorni in cui Gregory Taylor è stato nel braccio della morte in North Carolina, innocente. Sono finiti il 17 febbraio, quando, per la prima volta nella storia americana, è stato liberato da un verdetto di una Commissione indipendente nominata dallo Stato per i casi dubbi. 137 sono gli innocenti, molti dei quali mai risarciti, che hanno speso anni in quei bracci della morte. Come Curtis Mc Carthy, 21 anni passati nel carcere-modello di Mc Alister in Oklahoma: costruito sottoterra. Mai la luce del sole. Sepolti vivi. Vivi ma morti. Così ci si abitua all’idea. A lui, sopravvissuto, chiedo: «Provi rabbia?». E Curtis risponde, appena appena sorridendo: «No. Se avessi rabbia o odio, sarei ancora prigioniero. Invece sono un uomo libero». In California c’è il più grande braccio della morte del mondo, a San Quentin, 647 condannati. Aumentano di 30 all’anno. Pochissime le esecuzioni. Oltre alla bancarotta, all’intasamento della Corte Suprema per i ricorsi, con danno per il resto del sistema giudiziario, si apre lo scenario che essere condannati a morte senza certezza di essere uccisi per venti, trent’anni, sia una forma di tortura cui nessuno aveva mai pensato prima.
Sono 141 i Paesi del mondo che non usano più la pena capitale. Ma è un trend recente. Per millenni pensatori e Stati, da Aristotele a Kant, da Sant’Agostino a Hegel hanno trovato la pena di morte normale. Anche se i primi cristiani erano visti con sospetto nell’esercito romano perché non amavano uccidere. All’inizio degli Anni Settanta erano solo 23 i Paesi che avevano abolito la pena estrema. Oggi sono 103 in ogni circostanza, e altri 38 l’hanno abolita in tempo di pace o, di fatto, non eseguono condanne da più di 10 anni.
Emerge dal primo Rapporto sulla pena capitale del segretario dell’Onu Ban Ki-moon. Il rapporto stesso segna una svolta epocale: è quella intervenuta con l’approvazione da parte dell’Assemblea Generale dell’Onu della Risoluzione per una moratoria universale della pena di morte il 18 dicembre 2007. La pena capitale non è più solo una questione di giustizia interna agli Stati, ma è di interesse generale perché tocca i diritti umani. È un documento non vincolante. Ma quanto sia importante lo mostra il fatto che per quindici anni c’è stato un fuoco di sbarramento per bloccarlo. Come quando nel 1998 l’Ue ha ritirato la Risoluzione alla vigilia del voto perché era nato un fronte trasversale che la descriveva come iniziativa «neocolonialista» di una superpotenza, l’Ue, che voleva imporre la sua visione dei diritti umani. Ci sono voluti altri nove anni per risalire la china. Intanto si era celebrato a Strasburgo il primo Congresso contro la pena di morte, si era registrato un grande dinamismo francese e italiano sull’argomento, era nata a Roma la Coalizione mondiale contro la pena di morte (Wcadp), a Sant’Egidio, per iniziativa di Ecpm e un’altra dozzina di organizzazioni internazionali, da Amnesty International, a Sant’Egidio, a Pri e Fidh. E’ nata, sempre per iniziativa di Sant’Egidio, con il sostegno della Wcadp, la più grande mobilitazione interculturale sul tema, che ha visto oltre cinque milioni di adesioni in più di 150 Paesi del mondo: è diventata l’Appello con milioni di adesioni e le firme dei maggiori leader religiosi e laici del mondo, consegnato all’Onu alla vigilia del voto, per vanificare l’argomento del «neocolonialismo».
Si sono affermati i due grandi appuntamenti mondiali – non rituali – anche nei Paesi mantenitori, delle Giornate contro la pena di morte, il 10 ottobre, e delle Città per la vita, il 30 novembre, mentre si sono rafforzate le coalizioni regionali e la capacità di fare «rete»: oltre cento sono i movimenti abolizionisti e molte delegazioni ufficiali di governi che parteciperanno al prossimo congresso mondiale a Ginevra, dal 24 febbraio. È cresciuta la capacità di sinergia tra movimenti della società civile e Stati. Il rifiuto della pena capitale è diventato per l’Ue un elemento identitario. Mentre è stata capace di fare un passo indietro e di collaborare alla nascita di un fronte «cross regional», tale da creare il più vasto movimento di Paesi co-sponsor all’Assemblea Generale Onu. È una sfida che si ripeterà in autunno, quando la nuova Risoluzione verrà presentata, per marcare una crescita di consenso.
Nonostante il decennio della guerra in Iraq e del terrorismo, infatti, la pena di morte è arretrata. Uzbekistan, Kazakhstan, Kirghizistan, ma anche Gabon, Togo, e altri Paesi africani hanno fatto la differenza, sostenuti anche da Ong e Stati nella svolta abolizionista. Alcune svolte sono maturate, come per la pace, anche a Roma, a Sant’Egidio.
Negli Stati Uniti, in due anni, New Jersey e New Mexico, East Coast e Far West, hanno rotto il fronte e, dopo 30 anni, hanno abolito la pena capitale. La Corte Suprema Usa ha dichiarato incostituzionale l’esecuzione di disabili mentali e minori. In Cina la Corte Suprema ha invitato a ridurre solo ai «casi molto gravi» la condanna capitale e ha tolto alle corti locali il potere di comminarla: si calcola una riduzione del 30 per cento sul totale delle esecuzioni (che non si conosce in maniera certa). L’Asia si muove: è nata l’Adpan, la coalizione regionale, le Filippine hanno imboccato di nuovo la via abolizionista, il presidente della Mongolia ha inaugurato quest’anno la via abolizionista. Taiwan ha fermato da anni le esecuzioni quando appena 7 anni fa era il paese del mondo più attivo sul fronte delle esecuzioni, in rapporto alla popolazione. Aperture ci sono in Corea del Sud. Anche se in Iran le esecuzioni crescono e vengono esibite, in Giappone è passato il primo anno senza esecuzioni capitali. In India c’è un dibattito al livello della Corte Suprema, e altrettanto accade in Pakistan, con 7000 sentenze capitali fermate. Nei Caraibi cresce il dibattito anche tra i governi, perché la pena di morte non serve contro la violenza diffusa, vera malattia caraibica, con la povertà: l’Europa può fare molto per aiutare in questa direzione. Algeria, Tunisia, Libano, Giordania possono accelerare il cambiamento nell’area del Mediterraneo. Il Marocco ha fermato, in pratica, le esecuzioni e cresce la richiesta di abolizione. Il mondo guarda all’America di Obama, che crede nella necessità di essere più in sintonia con il resto del mondo. C’è la possibilità, storica, che la prossima Risoluzione Onu in autunno veda le astensioni di Stati Uniti, Giappone e India, con la crescita dei consensi nel resto del mondo. È un obiettivo per cui vale la pena di lavorare.
Mario Marazziti
portavoce della Comunità di Sant’Egidio
Moratoria
Speriamo che, dopo il pronunciamento dell’American Law Institute la mattanza finisca anche negli USA.