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Post 4 marzo, e oltre

Difficile mettere a fuoco le idee dopo il 4 marzo, o forse no.

Quello che stiamo vedendo, patendo in questi giorni (si, io ho un dolore fisico che si aggiunge a quelli che già ho di mio) era prevedibile ma comunque evitabile.

Il voto ha sancito soprattutto la sconfitta del PD e della sinistra in tutte le sue forme, ma non era affatto scontato che dovesse nascere un governo Lega-M5S, viste le bordate che sono stati soliti tirarsi reciprocamente nel corso degli ultimi tempi. Così, per memoria, vi posto due dei video che più sono circolati in rete in questi tempi e che testimoniano la profonda stima tra le attuali forze di maggioranza. Poi, ci mancherebbe, sono forze democraticamente elette in Parlamento ed è più che legittimo che con un sistema proporzionale le maggioranze si formino dopo il voto, però, ecco, qua siamo ben oltre le schermaglie pre-elettorali. Vabbè

Evitabile se solo il PD avesse scelto quantomeno di andare a vedere le carte, nel momento in cui si profilava la possibilità di far partire un dialogo con M5S. Come candidamente hanno ammesso, per i pentastellati l’importante era andare al governo, forti del loro 32 e rotti percento, e quindi poca differenza avrebbe fatto per loro governare con PD anziché Lega. Del resto destra e centro (il PD non è un partito di sinistra) pari sono quindi le possibilità di successo erano decisamente alte, seppur percorrendo una strada tutta in salita.

E invece è entrato in scena lui, il finissimo stratega mangiatore di popcorn, al secolo Renzi Matteo di Tiziano da Rignano sull’Arno che, non pago degli insuccessi inanellati uno appresso all’altro dopo la sbornia delle Europee (le lune di miele con gli elettori possono durare più o meno, ma finiscono sempre) ha deciso, da vero segretario del PD, che al tavolo non ci sarebbe nemmeno dovuti avvicinare.

E quindi eccoci tutti a soffrire per il governo attuale.

Un governo che presenta novità tanto eclatanti quanto inquietanti.

Un Presidente del Consiglio che sostanzialmente non conta niente, messo lì come due chiappe su un ramo (come ebbe a dire John McEnroe ad un arbitro durante uno dei suoi memorabili match). Ministri sconosciuti che hanno l’autonomia di un paracarro. (altra citazione, per pochissimi addetti ai lavori) Tutti pronti ad essere immediatamente smentiti, appena profferiscono verbo, dal vero capo della compagine, Matteo Salvini. E intanto la Lega si mangia M5S, visto l’assoluta irrilevanza politica del suo omologo, viste le incazzature di quella parte della base elettorale di M5S che proviene da una storia di sinistra e viste le affinità di quella parte della base elettorale di M5S più populista, sovranista, razzista e che quindi troverà naturale schierarsi con l’originale.

Quindi i provvedimenti del governo. Ad oggi, in realtà, zerovirgolazero. Bastano i proclami, le chiusure dei porti, la guerra alle ONG, gli attacchi a Saviano, le dimostrazioni di cielodurismo nei confronti di altri leader europei che sicuramente fomentano gli adepti ma che in sostanza non fanno altro che isolare il nostro Paese senza che si ottengano risultati invece tanto sbandierati dalla maggioranza. Sulla bestialità dei provvedimenti anti-migranti voluti da Salvini non c’è nemmeno necessità di tornare, basta dire che l’Italia è la culla del Mediterraneo, fin dagli albori della civiltà che ha sempre fatto dell’accoglienza, del mescolamento tra razze, del meticciato culturale il suo punto  di forza,  e invece oggi si trova ad utilizzare disperati che fuggono da guerre, stupri, povertà, come clave da sbattere sul tavolo quando ci si trova a discutere con altri Paesi. Ecco, quale forza enorme si sarebbe avuta, sugli stessi tavoli, se si fossero sbattuti i pugni forti del proseguire a salvare vite nel Mediterraneo? L’Italia, con il patto di Visegrad, con la sottocultura del rifiuto dell’altro, del rigetto della solidarietà tra popoli, dell’autarchia fascistoide che quel patto ha espresso non dovrebbe entrarci nulla e di fronte ad un governo apertamente xenofobo, razzista, lepenista, fascista la pregiudiziale che nutro è talmente forte e radicata in me che non ci sarà alcun provvedimento che potranno adottare che avrà il mio personale plauso.

In questo periodo, come in quello elettorale e anche prima, l’Europa è al centro del dibattito, talmente al centro che viene usata anche come macchina da fumo per nascondere, agli occhi di chi ha creduto alle promesse di Lega e M5S, l’impossibilità di realizzare ciò che molti hanno creduto fosse possibile, dall’abolizione della Fornero (la riforma in discussione aumenterà l’età pensionabile), il reddito di cittadinanza (se lo chiamavano Lavoro Socialmente Utile non  li avrebbe votati nessuno), la flat-tax (che in ogni sua forma è incostituzionale). Sia chiaro, l’Europa, anzi, meglio, i suoi governanti e le sue istituzioni, in questi anni ci hanno messo del loro per rendersi invisi ai popoli europei. Le ragioni le conosciamo tutti, e le abbiamo vissuti tutti sulla nostra pelle, nel bene (poche volte) e nel male (molto più spesso). Ma non è con l’autarchia, con il sovranismo che nega l’altro, con i dazi, con le guerre commerciali, con la svalutazione della moneta nazionale e l’inflazione galoppante che si risolveranno i problemi dell’Europa. La soluzione sta nella democratizzazione delle istituzioni, nella partecipazione diretta dei popoli alle scelte che li riguardano, nella costituzione di regole e strumenti comuni che tutti gli stati membri dell’Unione  dovranno impegnarsi ad adottare e difendere.

Senza una visione  di ciò che dovrà essere l’Europa anche il dibattito a sinistra, che già presenta la linea dell’encefalogramma piatta, sarà definitivamente destinato a fallire. Come dicevo all’inizio delle mie riflessioni i veri sconfitti alle elezioni sono stati i partiti di sinistra o presunta tale e a quattro mesi dal voto salvo rarissime eccezioni non è stato fatto uno straccio di autocritica per capire cosa sia successo, quali siano gli errori da non ripetere e da dove ripartire.  Quello che vedo in giro è una diffusissima volontà auto assolutoria che lascia tutto com’è sperando che passi la nottata o che finisca l’idillio tra una parte del paese e il governo attuale, come se i fallimenti altrui dovessero bastare per traghettare sic et sempliciter i voti dauuna parte all’altra. Non è così. Le ultime elezioni hanno dimostrato che una parte sempre più consistente dell’elettorato preferisce non votare piuttosto che scegliere soluzioni che non convincono. E così com’è, o come se la stanno immaginando i  suoi presunti leader, la sinistra o presunta tale non se la fila più nessuno.

PD, che mentre Renzi comanda si divide tra propositi di ricostruzione tra Calenda (!!) e Zingaretti e tutti sono contro tutti, come sempre.

LeU,, che oggi lancia il comitato promotore nazionale, fatto di persone rispettabilissime che probabilmente sono già di più rispetto ai loro elettori.

Possibile, unico partito con segretario che si è dimesso sul serio dopo la mazzata del 4 marzo, che continua ad occuparsi di temi importanti su diritti, migranti, caporalato, criminalità ma che ha la rappresentatività di un comitato di quartiere.

PaP, che rappresenta istanze sacrosante del mondo del lavoro, del mondo dei diritti, del mondo dei dimenticati ma ha di poco superato l’1% alle passate elezioni e non può far finta di aver vinto le elezioni. Il massimalismo va bene, ma senza confronto con altre forze politiche che presentano affinità rispetto alla tue non si va lontano.

Nessuno di questi partiti presenta alcuna attrattiva per la stragrande maggioranza dell’elettorato e secondo me vanno sciolti, al più presto. Fatto questo primo passo è necessario definire in quale campo vuole giocare la sinistra della terza decade degli anni 2000, quali parole d’ordine debba mettere al centro della sua azione politica, quali soggetti intenda tutelare, quali i principi irrinunciabili, quali i blocchi sociali da rappresentare.

Tutto ciò non senza che, prima, sia chiaro a tutti che le persone che hanno giocato un ruolo politico fino al giorno prima non possono più rivendicare alcunché per loro stessi e devono, improrogabilmente, lasciare il campo ad altri. Con tutto il rispetto che posso nutrire per le loro storie politiche personali e al di là della loro età anagrafica e del tempo passato in Parlamento. Non li faccio i nomi, tanto li conoscete, sono quelli che stanno in TV, che presenziano, che appaiono, che lanciano appelli, scrivono lettere. Nonostante l’attivismo, il parlamentarizzare questioni che riguardano crisi industriali, licenziamenti, il provare a stare sul pezzo hanno perso la capacità di rappresentare autorevolmente la loro e la nostra parte politica. Non basta più stare nei luoghi del conflitto, mi dispiace per loro, ma hanno tutti fatto il loro tempo.

Si ricominci da persone come Mimmo Lucano, Pietro Bartolo, Andrea Costa, Aboubakar Soumahoro, Marta Fana, Elly Schlein, Ilda Curtii e tutti quelli che possono portare esperienze di amministrazione e di impegno sociale nelle loro comunità esportabili su vasta scala. Devono essere persone così a rappresentare, anche nei media, le idee della sinistra del futuro.

Forse così, ma con un forse enorme, tra cinque anni potremmo provare a ribaltare il cappottone del 4 marzo. Ma non è affatto scontato.

Si o no? Sarebbe facile, in fondo

Dare risposte immediate al possibilismo che pervade la sinistra italiana davanti alle ipotesi di alleanze post-voto con PD o con M5S. La destra no, quella no (ma chi è destra? Casapound? OK. Fratelli d’Italia? Bon. La Lega? Ci siamo. Berlusconi? Alfano? Ah son destra? Ma già è capitato in passato di governarci insieme? Davvero?).

Quindi, dicevamo, due domande semplici semplici che Pietro Grasso, o chi per lui, dovrebbe/potrebbe porre.

Per il PD: lo aboliamo il jobs-act, reintroducendo l’art. 18 e prevedendo come unica forma contrattuale il tempo indeterminato?

Per il M5S: la approviamo subito la legge sullo ius soli?

Due questioni cruciali, lavoro e cittadinanza. Se non si è d’accordo su questo, non c’è possibilismo che tenga. Restano solo le chiacchiere da campagna elettorale.

E per quelle abbiamo dato, grazie

Dal mondo della fantapolitica al mondo del possibile

Credo che immaginare come fattibili alleanze con un PD derenzizzato sia un grave errore politico. Alcuni hanno proclamato ai quattro venti e fino a pochi giorni fa che non esiste differenza tra il PD e il centrodestra. Però oggi si ritiene possibile allearsi con il PD dopo il voto, magari contando su un magro risultato elettorale del Partito Democratico la cui responsabilità, secondo raffinatissimi strateghi, dovrebbe cadere tutta in capo al Segretario. Ciò dovrebbe indurre una contromutazione genetica e un ritorno alla ragione degli affidabilissimi neoparlamentari del PD, scelti direttamente da Renzi, magari già bersaniani della primissima ora. Auguri.

Personalmente non so se in LeU la pensino tutti così, ma in ogni caso se il primun inter pares nonché leader Pietro Grasso dice qualcosa, si immagina che siano tutti d’accordo. Se si tratta di responsabilità e di punti programmatici, mettiamoci dentro pure Berlusconi, che è uguale a Renzi, o no? Magari qualcosa concede pure lui.

Se, come si diceva all’atto della nascita di LeU, che le azioni sono state ripartite al 50% a MdP, al 35% a SI e al 15% a Possibile, allora è ovvio che qualcuno sta già esercitando la golden-share sull’impresa. Resta solo una domanda ai fuoriusciti dal PD della prima e dell’ultima ora: ma avete fatto tutto ‘sto casino per ri-allearvi con il PD?

p.s. amici del PD, astenersi dai commenti. La questione è tutta interna alla nascente sinistra, voi siete di bocca buona, vi fate passate un esercito di aratri sulla panza senza batter ciglio.

 

Il pezzo che manca alla sinistra unita a metà

Nel fine settimana scorso si sono svolte le assemblee provinciali unitarie di Sinistra italiana, Possibile e MdP per definire i delegati (1500) che parteciperanno all’assemblea nazionale del 3 dicembre prossimo, appuntamento che segnerà il via ufficiale della lista unica di sinistra in vista delle elezioni politiche di primavera, con tanto di nome, simbolo, e probabilmente leader (se Pietro Grasso scioglierà la riserva).

Come tutti sapete coloro i quai si sono riconosciuti nel percorso iniziato a partire dal 18 giugno con l’assemblea del Teatro Brancaccio non ci saranno, a seguito dei contrasti scoppiati nelle settimane scorse e che non poche polemiche hanno generato in questi giorni.

Lungi dal volere in alcun modo contribuire alle polemiche di cui sopra, spesso sopra le righe, talmente fuori le righe, anche da parte di importanti dirigenti di partito, da farmi pensare che non si stava spettando altro che il momento di rovesciarsi reciprocamente addosso un bel po’ di veleno che si era evidentemente accumulato nelle settimane precedenti, provo a dire la mia su quanto accade in questi giorni.

Nutro un senso di delusione, di incompletezza, e quindi anche di disillusione.  Mi hanno colpito negativamente le reazioni stizzite dei partiti davanti alle critiche mosse da Tomaso Montanari e Anna Falcone,  che a loro volta non sono stati teneri nel criticare chi, fino a poco prima, doveva essere un fidato compagno di viaggio. Senza voler demonizzare il percorso intrapreso da SI, Possibile e MdP, sicuramente partecipato (e la partecipazione è sempre una buona notizia), e soprattutto partecipato da tantissimi compagni che conosco di persona e ai quali riconosco capacità e ottime intenzioni, però credo che di fondo, nel voler proclamare la propria autonomia e autosufficienza rispetto ad altri percorsi partecipativi, e nel contempo invitare tra le proprie fila chi in quei percorsi interrotti si è riconosciuto, commettano un errore di valutazione abbastanza evidente.

Mi spiego con un esempio, e mi perdoneranno le persone che cito nel caso lo stia facendo a sproposito, ma credo che quanto riferito a loro sia comunque paradigmatico e applicabile anche ad altre realtà.

Tra le associazioni che hanno aderito al percorso del Brancaccio c’è Baobab Experience, che tutti a Roma abbiamo imparato a conoscere per l’opera meritoria ed eroica che compiono quotidianamente in aiuto dei rifugiati in transito nella nostra città. Chi fa politica di questi tempi sa quanto sia complicato “istituzionalizzare” (perdonatemi il temine) associazioni che operano nel sociale, da un lato per una loro naturale ritrosia a tenere rapporti con i partiti che stanno nel palazzo (nonostante, e questo va conosciuto, quanto Stefano Fassina, Pippo Civati, Nicola Fratorianni si siano spesi, anche in parlamento, per dare voce alle loro battaglie), dall’altro per la loro variegata composizione che rende quel mondo, i loro volontari, difficilmente inquadrabili all’interno delle singole forze parlamentari. Però Baobab Experience si è ritrovato nel percorso del Brancaccio, al pari di altre associazioni che quel 18 giugno hanno partecipato, sono intervenute e hanno iniziato una collaborazione, a fare rete tra di loro per dare un contributo alla costruzione di una sinistra che fosse la più ampia e contaminata possibile. In questo senso il mondo del Baobab, e altri con loro, sarebbe stato un valore aggiunto per tutta la nascente sinistra italiana. Nei giorni scorsi Andrea Costa, il loro portavoce, ha sottoscritto l’appello rivolto ai partiti affinché fosse riaperto il dialogo con le 100 piazze per il programma promosse da Montanari e Falcone. A questo appello i partiti hanno risposto tempo scaduto, invitando chi aveva partecipato a quelle assemblee ad unirsi durante gli incontri del 25 e 26 novembre scorso. Ecco, l’errore di fondo sta nel pensare che la partecipazione dei singoli, per esempio di Andrea Costa, sia equivalente alla partecipazione dell’associazione che rappresenta. Come se i singoli, con tutto il rispetto, possano in sé racchiudere le esperienze di un mondo e rappresentarlo all’interno di un percorso politico.

Non funziona così. Purtroppo.

Si è persa l’occasione per amalgamare mondi differenti, e la cosa che mi fa impressione è che i partiti non se ne stiano curando molto, tetragoni nella loro scelta di utilizzare le assemblee per blindare scelte che hanno fatto sostanzialmente a tavolino salvo concedere a chi avesse partecipato, da non iscritto, qualche posto in lista. Liste bloccate, peraltro, tanto osteggiate quando si tratta di discutere di leggi elettorali ma altrettanto apprezzate quando si vogliono evitare sorprese e i voti delle assemblee servono a ratificare anziché a scegliere. Sostanzialmente il de profundis delle primarie, tanto care a molti, ma evidentemente non più attuali.

Tralasciando poi i giudizi personali su Tomaso Montanari e Anna Falcone (“Stronzi”, “Hanno rotto il cazzo, loro e il loro civismo”, “Hanno iniziato loro” mi ha scritto un altissimo dirigente di uno dei tre partiti al qual chiedevo di metter fine alle polemiche e cercare una strada unitaria), che sono anche loro due persone per bene, preparate, coerenti e che non hanno chiesto alcunché per loro, altro motivo del contendere sono state le richieste che hanno formulato in merito alla futura composizione delle liste per la composizione del Parlamento. La presenza nei posti concretamente eleggibili della lista proporzionale di un 50% di donne; di un 30 % di under 40; di un 50% di candidati mai stati in Parlamento e infine la non candidabilità di chi ha avuto ruoli di governo. Tali proposte sono state bollate come un mix di rottamazione e grillismo. Obiettando che l’inesperienza ha prodotto una legislatura nella quale i “giovani” parlamentari non hanno brillato per capacità. Ecco, anche questa mi sembra un argomento un po’ misero per opporsi alla richiesta di Alleanza Popolare, come ad arrendersi all’ineluttabilità dell’equazione giovane età=inesperienza=fallimento, come se la differenza non debba essere fatta dalla qualità delle persone che si scelgono a prescindere da esperienza ed età. Che poi capirei avessero proposto il 100%, ma si sono limitati a percentuali molto più basse…

Insomma, invece di avere l’ambizione, a sinistra, di far meglio di quanto fatto nel recente passato al PD e da M5S, si è preferito volare basso, ed arrendersi al destino cinico e baro che non consente di selezionare al meglio le classi dirigenti del futuro, Un po’ poco.

In definitiva si poteva fare meglio,  e di più, e siccome molti di noi vogliono la luna accontentarsi di un cielo con qualche stella e molte nuvole sparse, personalmente, non mi rende entusiasta.  Soprattutto temo che l’effetto moltiplicatore che ci sarebbe stato con un percorso condiviso verrà fatalmente meno. 1+1+1+1+1 avrebbe potuto fare 10, anche 12. Temo invece che 1+1+1 farà 6, 7. Ciò non toglie che continuerò a seguire con interesse tutto ciò che si muove a sinistra, perché quella è casa mia.

 

I dolori della nascente sinistra

Io non so se esista realmente una sorta di maledizione, un demone meschino che induce quasi ad ogni pie’ sospinto quel mondo indistinto, eppur distinguibilissimo, che va sotto il nome di “sinistra” a farsi del male da sola ogniqualvolta sembra prefigurarsi la possibilità di costruire qualcosa di utile per un pezzo di Paese.
O se, tolto il demone, resti solo la meschinità degli uomini, dei singoli, le loro ambizioni.
La loro capa, insomma.
Nella dicotomia partiti-di-sinistra Vs civismo vedo, per ora, solo una ulteriore occasione persa.
Non voglio attribuire, nelle  vicende di queste ore, colpe, responsabilità, retropensieri, patenti di alcunché a chicchessia.
Prendo atto, con estrema amarezza, della situazione. Probabilmente ciò a cui assistiamo  avviene anche perché, come ha osservato Andrea Ranieri, il periodo immediatamente prossimo allo svolgimento di elezioni politiche non è il migliore per “costruire la sinistra”.
Vedo però degli elementi di criticità nel percorso che Sinistra Italiana, Possibile, MdP e Alleanza Popolare hanno intrapreso in questi mesi.

Innanzitutto, come ha ammesso anche Tomaso Montanari, il non essere riusciti a mobilitare in maniera significativa i cittadini nelle 100 assemblee per il programma che evidentemente non hanno fatto registrare, al di là della bontà delle proposte messe in campo, una presenza “fisica” tale da scongiurare scalate organizzate di soggetti “esterni”. E il solo pericolo di una deriva del genere nell’assemblea del 18 ha suggerito di annullare l’evento per evitare che da quell’appuntamento venisse meno lo spirito con il quale il percorso era iniziato.

(Apro una parentesi. si può esprimere soddisfazione per il ritorno della sinistra all’interno dell’Assemblea Regionale Siciliana. Ma il risultato di Claudio Fava e della lista unitaria che lo ha sostenuto è stato largamente deludente, dobbiamo dircelo chiarezza. E anche le assemblee di SI, Possibile, MdP non mi sembra che riescano a muovere folle oceaniche. Tra l’altro il rischio, come dice Alessandro Gilioli, che chi partecipa si fracassi sonoramente i coglioni mi sembra sia abbastanza elevato. Questo per dire che la partecipazione, e i consensi, sono un problema, a sinistra. E da solo il percorso unitario non basta a motivare sufficientemente tutti quelli che in questi anni hanno perso la fiducia per strada. Chiusa parentesi).

E sempre restando alle parole di Montanari, forse sono ingenerose le critiche mosse a Civati, Fratoianni e Speranza di aver deciso tutto a tavolino per quanto riguarda le assemblee provinciali che il 25 e 26 novembre dovranno scegliere i delegati che parteciperanno all’assemblea nazionale unitaria  del 2 dicembre. Voglio pensare, come come continuano a garantire i diretti interessati, che saranno assemblee locali quanto più aperte e scalabili è possibile, nella più ampia accezione del termine scalabile. Senz’altro mi colpisce l’aver sostanzialmente individuato il nuovo leader della sinistra nella figura (degnissima) di Pietro Grasso. Non per la persona, di qualità indiscusse e indiscutibili. Ma per il metodo mi permetto di sollevare qualche dubbio. Capisco la necessità di individuare per tempo una persona che in maniera autorevole, anche in virtù del proprio ruolo istituzionale, possa rappresentare una leadership che deve essere anche collettiva.

(Apro altra parentesi. Alcuni pongono la seguente questione: può Pietro Grasso, uscito dal PD pochi giorni fa, Presidente del Senato scelto anche dal PD e che ha consentito di portate avanti, dallo scranno più alto di palazzo Madama e nell’esercizio delle sue funzioni, tutte le contro-riforme del PD, proporsi in maniera autorevole come leader di uno schieramento che ha la sua cifra distintiva nella strenua opposizione a tutto ciò che il PD ha fatto in questi anni? E più in generale, quanto in questa fase deve essere inclusiva la sinistra nei confronti di chi ha avallato fino all’altro giorno, se non con la convinzione delle idee per disciplina di partito, le politiche messe in campo dal partito principale sostenitore del Governo? Chiudo altra parentesi).

Però sostanzialmente i partiti stanno calando dall’alto una leadership che poi vorranno legittimare con le scelte dell’assemblea (metodo top-down) probabilmente contraddicendo le buone intenzioni più volte manifestate (e ben tetragone in chi si è riconosciuto nel percorso del Brancaccio) di costruire una leadership dal basso che emergesse nel procedere delle varie fasi di discussione/confronto/sintesi (metodo bottom-up).

Insomma, ad oggi non sembrano esserci margini per ricucire lo strappo che si è consumato in questi giorni su questioni che sono dirimenti e sostanziali per il percorso che si sarebbe dovuto intraprendere uniti.

Sarò pessimista, ma allo stato attuale vedo piazze abbastanza vuote e, temo, urne ancor di più.

 

Di vertici e di basi che mancano (per ora)

Un passaggio alla Casa Internazionale delle Donne, lunedì pomeriggio, per vedere un po’ l’aria che tirava nella prima assemblea romana post-Brancaccio di Alleanza Popolare per la Democrazia e l’Uguaglianza.

Tanta gente, buon segno. È l’occasione per salutare qualche persona con la quale ho fatto un pezzo di strada insieme. Ascolto qualche intervento, poi vado via con una sensazione di incompiutezza addosso. Mi rimane un po’ di amaro in bocca, diciamo.

Provo a spiegarmi.

L’impressione, condivisa con una cara persona che era anch’essa lì, è che per ora il bacino di utenza della sinistra romana che ha risposto all’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari sia il medesimo che alle scorse elezioni ha sostenuto la candidatura di Stefano Fassina. Nulla di male, ci mancherebbe, ma ovviamente non può bastare. Il problema è come allargare il più possibile il campo non tanto della partecipazione (anche quella serve, ovviamente), quanto del consenso.

La platea, ne sono sicuro, era composta per la stragrande maggioranza da persone che si può dire appartengano ad un ceto medio-borghese, con alto livello di scolarizzazione e buone letture. I promotori, e molti di quelli che hanno parlato, sono persone attive, e con merito, sulla scena politica romana (in alcuni casi nazionale) da più o meno tempo. E va bene, da qualche parte, e da qualcuno, bisogna pur iniziare. Mi colpisce però l’assenza di quel pezzo di società che abbiamo, a sinistra, l’obiettivo (e la presunzione) di rappresentare. Dove sono le persone che più hanno patito della crescita delle disuguaglianze (operai, disoccupati, pensionati, precari, studenti, insegnanti) nel nostro paese e che più, di conseguenza, sono stati spinti verso l’astensionismo? Non ne ho visti, lunedì, e non ho visti al Brancaccio.

Più in generale mi pongo il problema se, al di là di esperienze positive di impegno nel sociale che nei quartieri esistono, prendono forma quotidianamente, e che anche singolarmente molti di noi praticano, pur non vivendo in primissima persona situazioni di palpabile disagio socio-economico siamo in grado di dar voce a chi l’uguaglianza non sa più cosa sia. Ri-politicizzare questa fetta di “esclusi”, far nascere una nuova coscienza di classe presuppone un’opera, passatemi il termine, di evangelizzazione che però deve passare anche da figure “profetiche” che per ora non vedo, né come singoli né a livello collettivo. Non necessariamente il leader alla Corbyn o alla Sanders, che se ci fossero ben venga, ma persone semplicemente in grado di rappresentare con autorevolezza e credibilità le istanze che provengono dalla moltitudine di persone che non si sentono rappresentate, a sinistra.  Un intervento, tra i più autorevoli, ha evidenziato la necessità di ripartire da tre parole d’ordine: scuola, ricerca, cultura.

Ma, per esempio, come andare a parlare di dispersione scolastica a Tor Bella Monaca, o a San Basilio, senza correre il rischio di organizzare il solito tavolo tematico tra addetti ai lavori, e che magari vivono per lo più in I o II Municipio, con il risultato di smuovere un nonnulla in termini di allargamento di partecipazione e di consenso ? Come organizzare tavoli territoriali, gruppi di lavoro ristretti (questo uno degli input usciti dall’assemblea per il prosieguo del cammino nelle prossime settimane) senza correre il rischio di parlarsi addosso (perdonatemi il termine) tra vertici con il risultato di non allargare alla base? Come colmare la distanza da quelle periferie che ci hanno voltato le spalle per colpa della nostra inadeguatezza a percepirne sofferenze, criticità, bisogni?

Non ho risposte, e non voglio nemmeno sembrare pessimista. Non lo sono di natura.

Ma questa è la genesi della sensazione di cui parlavo prima. Tra un po’ capiremo se passa o aumenta.

Le parole non dette a Piazza Santi Apostoli

Saltato l’appuntamento fuori porta, un giro a Piazza Santi Apostoli ieri l’abbiamo fatto.
Ho salutato con piacere, come immagino molti dei presenti, un po’ di persone che in questi anni abbiamo perso per strada. Anche tante persone del PD: ministri, sottosegretari, parlamentari, consiglieri comunali, semplici iscritti. Alcuni in incognito, altri no. Si leggeva negli sguardi il desiderio di ritrovare un terreno comune, ma sarà davvero possibile?
Nei giorni scorsi evidenziavo la necessità di ripartire, da oggi, senza ambiguità, con una scelta di campo netta. Ecco, non mi sembra che ciò sia avvenuto, ieri, in quella Piazza, ad opera dei promotori dell’iniziativa.
Il discorso più significativo l’ha tenuto Pierluigi Bersani, che ha pronunciato parole condivisibili su fisco, ambiente, lavoro, scuola, in linea con quanto ascoltato al Teatro Brancaccio due settimane fa. Meno bene sull’analisi della storia recente, sul rimpianto della sinistra che nel mondo a metà degli anni ’90 ha conquistato la fiducia degli elettori in molti paesi per poi tradirla con politiche che di sinistra avevano ben poco o che comunque non hanno saputo prevedere i disastri della globalizzazione, delle tempeste finanziarie, delle guerre. Parliamo di Blair, di Schroder, di Clinton ma anche dell’Ulivo, con i suoi leader e i suoi governi, che ha lasciato incompiute riforme (pensiamo solo al modo del lavoro e la mancata regolamentazione del precariato che in quegli anni ha la sua origine) la cui mancanza ancora oggi pesa come un macigno sulla vita delle persone. Su questo solco ha proseguito la sua opera anche il Partito Democratico, negli anni in cui ha governato, e quindi mi perplime alquanto sentire parlare, dal palco di Piazza Santi Apostoli, di centro-sinistra. Perché, e in questo Renzi ha ragione, un centro-sinistra senza il PD non è pensabile. Ma nemmeno è pensabile un PD che faccia ammenda di sé stesso e riconosca il fallimento delle maggiori (pseudo)riforme che ha sostenuto in questi anni. Anzi, Renzi in questi giorni rilancia, e lo fa perché è forte, giustamente, del consenso ottenuto nel congresso che si è chiuso poche settimane fa. E allora ecco l’ambiguità non risolta, la scelta di campo incompiuta, ieri. Le parole udite da quel palco sono, allo stato attuale, del tutto incompatibili con un’alleanza con il Partito Democratico. Sono incompatibili con lo svolgimento di primarie del cosiddetto centro-sinistra. Sono incompatibili con un patto post-elettorale nel caso in cui, come è ormai probabilissimo, si voterà con sistema proporzionale (si tratta solo di decidere quale sarà la soglia di sbarramento).
Eppure si punta ancora ad un centro-sinistra largo, come se ci fosse solo da mettere a punto piccole questioni programmatiche con il partito il cui segretario è Andrea Orlando.
Ecco, le cose non stanno così. Per niente. E quindi fatico a capire come intendano uscirne Pisapia, Bersani, Campo Progressista, Articolo 1, Insieme. Anche se uscissero ancora pezzi di ceto politico e di elettori dal partito di Renzi, il segretario andrebbe avanti come un caterpillar, non è uomo che ammette i propri errori.
Mi è invece più chiaro il percorso segnato da Montanari e Falcone, con Sinistra Italiana, Possibile e chi ci sta. Alternativi al PD. In questa fase non può essere che così.
Spero che i compagni presenti ieri in Piazza Santi Apostoli lo capiscano quanto prima, e agiscano di conseguenza.

Appello ai compagni di SEL

Carissimi compagni di SEL, sono giorni difficili anche per voi, mi rendo conto. Sentirsi dire, come ha fatto ieri Laura Boldrini (autorevolissima esponente del vostro partito), che sulle scelte importanti SEL e il PD non presentano differenze, beh, mi avrebbe fatto arrabbiare non poco. Sentirsi dire che la pensate allo stesso modo sul jobs-act, sul demansionamento, sul controllo a distanza dei lavoratori, sul preside manager, sulla buona scuola, sulle trivelle, sui 3.000 €, sull’italicum, sulla riforma della Costituzione non è proprio il massimo . Di sicuro dentro SEL ci sarà qualcuno tentato dalle sirene del governo, dalla retorica berlusconian-renziana della fiducia, dell’ottimismo che è il sale della vita (politica). E allora forse è giunto il momento di fare chiarezza, al vostro interno. Certo, non è facile. Non è facile liberarsi del vostro ingombrante leader che ormai è la narrazione di sé stesso. Peccato, qualche anno fa avrei consegnato volentieri a Vendola le chiavi di casa del centro-sinistra. Non è facile rinunciare ai posti di governo sparsi tra regioni e comuni. Perché in effetti SEL non è mica Rifondazione Comunista. Là ci stanno quattro reduci, tipi alla Ferrero, alla Mantovani, alla Russo Spena, che al massimo puoi incontrare a piazzale Aldo Moro a volantinare giornali improbabili che si rifanno alla lotta comunista. Là ci stanno assessori, consiglieri, finanziamenti pubblici. Governo e sottogoverno. Come nella regione Lazio. Dove per esempio, a proposito di grandi scelte che non presentano differenze con il PD, tutti d’accordo con la realizzazione della Roma-Latina, con il consumo di suolo, con la mobilità insostenibile.

E allora si, è il momento di fare chiarezza, perché conosco molti di voi e so per certo che con il PD attuale avete pochissimo in comune. E il doppio binario nazionale/locale è una contraddizione in termini, un artificio retorico, un’ambiguità tutta vendoliana, se poi la realtà, anche sui territori, è quella delle scelte sbagliate (vedi sopra). Come ho avuto modo di dire, salvo rarissime eccezioni di giunte di sinistra che chiedono un rinnovo del mandato sulla base di scelte chiare su ambiente, diritti, eguaglianza, mobilità, innovazione è impensabile allearsi con il PD alle prossime elezioni amministrative.

Prendete atto che il progetto di SEL è arrivato ad esaurimento, che le fabbriche di Nichi sono un lontano ricordo e che la coalizione Italia Bene Comune è morta il giorno dopo le elezioni. Pensare di riproporla nelle città, nei Comuni, è solo un contributo alla crescita dell’entropia politica.

Scioglietevi. Ciascuno farà le sue scelte. Alcuni andranno nel PD. E diventeranno più realisti del re. O più renziani di Renzi, fate voi. Altri avranno il coraggio di navigare in mare aperto, come molti di noi stanno già facendo. La mia speranza è di incontrarvi lì, e di solcare questo mare su una barca da costruire insieme, pezzo dopo pezzo. Con l’obiettivo della terraferma, però. La terraferma che si chiama sinistra.

Come ti ammazzo il sindacato

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La CGIL è il mio sindacato, sono iscritto da anni alla FILT ma riconosco tutti i limiti dell’azione della CGIL.

Ne parla anche oggi Antonio Padellaro su Il Fatto Quotidiano, che lancia un’appello a Susanna Camusso e a Maurizio Landini:

“…colpisce il declino di un’organizzazione che da troppo tempo non è più capace di farsi carico, come si diceva una volta, degli interessi generali del Paese. Concentrata sulla difesa dei propri iscritti: pochi lavoratori produttivi e soprattutto pensionati e pubblico impiego. Rinchiusa nelle proprie roccaforti e indifferente al degrado della cosa pubblica. E adesso indicata come il male da cui liberarsi. Fate qualcosa.”

Ripongo le mie speranze in Landini. In Susanna Camusso molto ma molto meno.

E la presa di posizione di Susanna Camusso sui referendum proposti da Possibile non fa che rafforzare le mie critiche nei confronti dell’attuale dirigenza della CGIL.

Certo, lo strumento, negli ultimi anni, ha mostrato i suoi limiti. O quantomeno i cittadini hanno spesso dimostrato di non essere troppo disposti ad un coinvolgimento diretto nelle scelte che li riguardano. Misteri italici, visto che, di contro, sovente ci si lamenta di non poter scegliere direttamente. Ma se le firme si raccolgono raccogliendole, resta appunto l’incognita della partecipazione all’eventuale voto. E va da sé che il mancato raggiungimento del quorum sarebbe un bel problema, per tutta la sinistra.

Nutro qualche perplessità sul quesito che riguarda la scuola, non perché non ne condivida lo spirito e il fine, ma perché temo che possa essere utilizzato come referendum pro o contro gli insegnanti, di ogni ordine e grado. Scaricando su di loro le frustrazioni, motivate o meno, di genitori, cittadini, che vedono indistintamente nella classe docente dei nemici, dei fannulloni, dei privilegiati, senza entrare nel merito del quesito. Purtroppo Renzi è stato bravo, in questi mesi, a mettere pezzi di società contro.

Però evocare scenari di riforme dello statuto dei lavoratori o della scuola sui quali impegnarsi prioritariamente (quando? con quali tempi? con quali interlocutori?) come motivazione per non sostenere i referendum mi fa venire solo rabbia. Perché al di là del caso specifico in quelle parole intravedo la farraginosità dell’azione sindacale, i tempi lunghissimi, la sempiterna proposizione di riti che sanno di politica stantia, l’atavica difficoltà nel superare l’attrito di primo distacco, il non voler scardinare equilibri e collateralismi rispetto al governo amico che ancora resistono, come se pezzi di CGIL avessero ancora qualcosa da chiedere ai loro referenti politici che sono rimasti nel PD. A far cosa, nessuno lo sa.

Nelle parole della Camusso vedo il sindacato che resta sempre uguale a sé stesso, che non sa rappresentare le nuove generazioni, che non si intesta battaglie giuste solo perché non ne può rivendicare la primogenitura.  Il sindacato, e la CGIL, se vuole avere un futuro, deve mettere in atto un profondo cambiamento nei metodi e nelle persone.

Altrimenti si rischia di ammazzarlo, il sindacato.